Caso Stellantis: politici ed operai al servizio dei padroni

La vicenda Stellantis è l’emblema del fallimento della nostra classe politica. Della sua inadeguatezza.Essa conferma come nel tempo della globalizzazione economica il ruolo dei politici sia residuale, limitandosi questi a ratificare decisioni prese altrove. Quindi, i politici che hanno governato negli ultimi trent’anni sono i responsabili di questa inazione. C’era una volta la classe operaia, le cui vicende esistenziali, lotte, e conquiste sociali, sono state ben raccontate, fra i tanti, dai film di Elio Petri ed Ettore Scola o dai libri di Nanni Balestrini. Negli anni ’60 i dipendenti dell’allora FIAT erano 160 mila. Oggi, dopo fusioni ed incorporazioni, iniziate con l’FCA, si sono dimezzati. Ci sono state le delocalizzazioni e la chiusura degli stabilimenti, e la contrattazione aziendale sostitutiva di quella nazionale, consentite da finanziamenti statali e legislazioni lavoristiche favorevoli al datore.

E c’erano una volta le politiche pubbliche, con uno Stato interventista. Esse sovvenzionavano gli asset strategici, le imprese di importanza nazionale o quelle gestite direttamente dallo Stato. Sui fondi regalati agli Agnelli ed Elkann, sul tipo di produzioni, l’impatto ambientale e le condizioni lavorative si potrebbe aprire un capitolo a parte. Ricordiamoci che per anni milioni di vetture, magari inferiori alle concorrenti estere, sono rimaste invendute. La stessa tardiva svolta elettrica (Marchionne ha preferito altro)ha dei costi ecologici e sociali. Quello che dovrebbe fare uno Stato serio è ad esempio dare attuazione all’art. 41 Cost.

La dimostrazione della sua impotenza, invece, è dimostrata dal fatto che ogni multinazionale fa come gli pare. Al pubblico non appartiene più niente. Vogliono un mercato ancor più libero, il che equivale all’eliminazione del rispetto delle regole, salvo poi reclamare l’intervento statale quando il mercato stesso fa le bizze: profitti privati e socializzazione delle perdite. Le varie forme di  cassa integrazione, ma anche la dipendenza estera emersa durante il covid per la fornitura di mascherine e bombole di ossigeno. O, ancora, le speculazioni sui prezzi, le quotazioni energetiche alla borsa di Amsterdam, la necessità di avere microchip e semiconduttori.

Il pubblico rifocilla le aziende ma si astiene dall’affrontare le vertenze. Sempre durante il covid il governo Conte (l’uomo delle giravolte) ha stanziato fondi per la nostra azienda automobilistica, i cui profitti, invece di essere investiti nella produzione sono stati divisi aumentando gli emolumenti degli azionisti. Ed adesso ci ritroviamo con il governo del finto made in italy, i sovranisti mascherati, supini, come chi li ha preceduti, al capitale globale. La crisi attuale, è una crisi sistemica, di ritardi ed errori. Con i governi incapaci di trovare soluzioni adeguate, come avvenuto con Alitalia, Ilva, ma anche Whirpool o gli operatori delle telecomunicazioni. Per quanto riguarda la Basilicata, ce la si prende con l’ad straniero, mentre chi c’era prima veniva beatificato dalla stampa asservita. Marchionne è stato l’amministratore che ha risanato i conti aziendali sulla pelle dei lavoratori. Grazie al contributo dell’amico Renzi, il jobs act, l’abolizione dell’art. 18 (superando in questo Berlusconi), le nuove assunzioni detassate, gli 80 euro in busta paga per comprarsi i lavoratori. Cittadino svizzero, che spostando la sede legale/fiscale all’estero ha eluso il fisco italiano, al pari dei tanto celebrati campioni dello sport (Mancini, Sinner) o degli imprenditori del lusso.

In America l’allora FCA è stata condannata da un Tribunale a pagare una multa milionaria dopo aver truccato sulle emissioni nocive. Questo, però, i nostri tg, in specie quello regionale (la cui sudditanza e provincialismo è evidente), lo hanno tenuto nascosto, abituati come sono a celebrare oltre il dovuto ogni pseudo iniziativa.

Le responsabilità, allora, vanno cercate sia a livello nazionale, che locale.

L’assenza di una strategia aziendale, l’incentivo ai licenziamenti (2000 persone), quali auto produrre e chi potrà permettersele di acquistare (se costeranno 70 mila euro), rendono palese, a questo punto, come invocare un colloquio tra le parti sociali, sia illusorio, anche perchè il gruppo Stellantis non fa parte di Confindustria. Perchè non prendere ad esempio gli altri Paesi? In Germania ad esempio vige la cogestione tra lavoratori ed azienda per quanto attiene le decisioni; in Francia si lavora molte ore in meno. E le retribuioni dei lavoratori sono superiori. I nostri lavoratori dipendenti sono quelli che mediamente lavorano di più in Europa e fra i meno pagati, invece Tavares guadagna mensilmente l’equivalente di 12 mila operai. Tra l’altro, all’indomani della creazione dello stabilimento di Melfi è stato imposto un modello del tutto simile alle gabbie salariali, con turni, ed una mole complessiva di lavoro superiore agli altri stabilimenti. Questo grazie alla complicità dei sindacati “gialli”, gli stessi che raccomandavano le assunzioni, insieme al politico, che magari suggeriva di iscriversi alla sua Agenzia di Lavoro.

Ritornando alla Basilicata, l’impatto economico negativo sul pil regionale potrebbe essere vicino al 38%, se pensiamo che fino agli inizi degli anni ’90 la sua ricchezza non era data dallo stabilimento automobilistico, nè dalle royalties petrolifere e dai fondi comunitari. Eppure vi erano il carrozzone pubblico (sempre la raccomandazione) con tanti assunti a tempo indeterminato pur non avendone i titoli di studio o i requisiti. Ed ancora, un minimo di infrastrutture e servizi per i cittadini, gli uffici postali, le Banche, gli ospedali, il personale nella p.a.

Quindi, nonostante la ricchezza arrivate nelle casse regionali, i fenomeni più evidenti dagli anni ’90 in poi sono la mancanza di un lavoro,  il precariato, la desertificazione sociale. Termine questo, che tanto piace al politicante di turno, il quale continuando a favorire gli interessi datoriali, manda i propri figli a vivere al Nord o all’estero. I salariati locali, che realmente hanno investito sul territorio, mettendo su famiglia, aprendo mutui ed attività, oggi vagano in un limbo.

Le colpe però si cercano sempre fuori, la concorrenza al ribasso della Cina, la mancanza di semiconduttori, l’austerità europea, ma chi ha consentito tutto ciò?

Gli amministratori locali, con colpevole ritardo, adesso cercano possibili soluzioni, affiancati da vescovi e prelati, che esprimono la loro solidarietà ai lavoratori a rischio, ma questi ultimi di certo non hanno problemi sul come sopravvivere, essendo parte di quella élite storicamente privilegiata, stipendiata dalle gerarchie ecclesiastiche ed aiutata dallo Stato (si è mai visto un uomo di chiesa vivere di stenti?)

Le colpe, infine, vanno ricercate anche in quella classe operaia apoliticizzata, abbandonata a sè stessa, ma complice dello status quo, perchè pronta a lamentarsi, ma poco combattiva. E’ facile additare gli altri come causa dei mali, questo è tipico di quel qualunquismo deresponsabilizzante, lo stesso che poi porta i voti sempre dalla stessa parte. La dimostrazione di questo asservimento è dimostrato anche dal giorno dell’incontro tenutosi a Ruvo, in una sala vuota di operai, i quali evidentemente preferiscono stare al bar a giocare a carte, invece di presenziare agli incontri e far sentire la propria voce. Quali le soluzioni? La situazione è complicata, ma un cambiamento di paradigma è necessario. Un controllo pubblico, o meglio la gestione operaia sul come e cosa produrre.L’aumento dei turni e la riduzione e distribuzione dell’orario di lavoro. Oltre ad un salario legato si alla produttività ma anche al potere d’acquisto.

Argomenti che non trovano referenti affidabili nei sindacati confederali e nei politici fermi a conservare le loro posizioni. E’ alle porte si paventa il pericolo di un’accelerazione nell’automazione, l’intelligenza artificiale e le altre diavolerie, che già stanno distruggendo milioni di posti di lavoro e di vite.

Giuseppe Giannini

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