L’inchiesta di Presa Diretta sulla Fiat, da Sata, Chrysler, a Stellantis: un esempio eclatante del declino del capitalismo assistito, quando il “Just” non è mai “in time”

Quando, qualche tempo fa, fui invitato dai sindacati confederali, ad una loro assemblea pubblica, a Ruvo del Monte, per parlare dei problemi della Stellantis di Melfi, alla presenza, tra gli altri, dell’ex sen. Barozzino e del sindaco di Melfi, Maglione, mi venne l’idea estemporanea di leggere un mio articolo ad hoc sull’argomento, intitolato: ”Il gruppo FIAT, dal dopoguerra ad oggi, resta l’azienda privata maggiormente sovvenzionata dallo Stato italiano”. Poi chiesi, rivolto al pubblico in sala: “Sapete che data porta questo mio articolo, apparso sul giornale La Nuova del Sud?” Tutti risposero: “Ieri o oggi ( 22 ottobre 2023, ndr)”. Dissi che nessuno c’aveva azzeccato, poiché era uscito il lontano 26 luglio 2010, cioè ben oltre 13 anni prima (sic) ma, evidentemente, a sentire gli umori, o meglio, i malumori confermati dall’inchiesta televisiva di “Presa diretta” (Rai Tre) del 19 febbraio u.s., nulla è cambiato: alle vecchie lamentazioni si sono aggiunte anche quelle relative alle “astinenze a rotazione dal lavoro”, esiziali per il popolo dei “working poor”.

Sì, purtroppo, la verità effettuale sulla nostra industria automobilistica è impietosa. Ciò in quanto, in Italia si vendono le auto solo se lo Stato interviene in soccorso con massicce sovvenzioni pubbliche, chiamate eufemisticamente “rottamazioni ”. Fatto sta, però, che oltre alla FIAT and company, se ne avvantaggiano anche le marche estere concorrenti, fino a saturare artificiosamente, in poco tempo, il mercato. Dopodiché, quando il mercato langue, cominciano, se tutto va bene, i vari tipi di ammortizzatori sociali, a carico, ovviamente, dello Stato. In buona sostanza, gli oneri vanno alla fiscalità generale, e i dividendi, invece, agli azionisti privati! Un modus operandi inveterato che è operativo in tutti i settori industriali, non solo in quello automobilistico. Ora, focalizzando l’attenzione sullo stabilimento Stellantis di Melfi, non sfugge a nessuno un peggioramento complessivo delle condizioni lavorative, contrassegnate da un fordismo-toyotismo da ”Tempi moderni”, che prevede, in primis, l’incremento della produzione non aumentando, bensì diminuendo in modo inversamente proporzionale il numero degli operai e delle ore lavorate! E tutto avviene sempre sotto il ricatto del licenziamento per i “ribelli”. Un ricatto che, negli ultimi anni, è diventato sempre più di moda nelle fabbriche italiane, non solo alla “Fiat-Chrysler-Stellantis”, dove all’insegna del divide et impera si concedono incentivi economici all’esodo non violento, per fare la stessa produzione con meno manodopera. Poi, come in questo momento, quando le “vacche” sono troppo magre, a prescindere dall’amministratore delegato di turno, si minaccia di spostare la produzione in Romania, Polonia, Serbia, Cina etc. se il Governo risponde “picche” alle richieste di aiuti di Stato. Intanto i salari dei lavoratori italiani, tra i più bassi d’Europa, subiscono costanti contrattazioni al ribasso, durante le “concertazioni” con i sindacati più rappresentativi, ad eccezione, ad onore del vero, della FIOM, rimasto, forse, l’unico baluardo a difesa delle istanze provenienti dal sempre più impoverito mondo del lavoro subordinato. Indissolubilmente legato al sito produttivo melfitano è il cosiddetto “Just in time”, che sembra, di primo acchito, una marca di delivery, ma è tutt’altro e merita un’attenzione particolare.

Questo sistema produttivo di matrice anglosassone, inaugurato negli anni ’20 del secolo scorso alla Ford, e negli anni ’50 alla Toyota, importato e adottato da Sergio Marchionne, quando era AD del gruppo torinese, nella fattispecie lucana si è dimostrato inadatto e fallace (già nella semantica) ai fini della continuità produttiva. Infatti, quando il telegiornale regionale annuncia: “Fermo produttivo per 2/3/4 giorni, alla Stellantis di Melfi, per mancanza di componenti ”, ammesso che la causa sia vera, si tratta del mancato arrivo dall’estero delle “schede elettroniche” dalla Cina, che sembra averne il monopolio, o dei cavi di cablaggio dalla Tunisia o altra nazione, a dimostrazione che nella città federiciana si fa quasi solo assemblaggio, non produzione di componenti elettronici normalmente intesi, costituenti il software di comando delle autovetture. In parole povere, con questo “Just” poco “in time”, l’industria evita i costi di giacenza del materiale componentistico in entrata (e del prodotto finito in uscita), anche a rischio di fermare totalmente la produzione quando, per qualche problema, i “pezzi” non arrivano “appena in tempo” da migliaia di chilometri di distanza. A tutto questo, ora si è aggiunta la transizione ecologica che, se non affrontata con realismo e competenza, potrebbe celebrare il de profundis della nostra fabbrica modello e del suo indotto, insieme alla Logistica, già in profonda crisi occupazionale. I prodromi sono sotto gli occhi di tutti: i vuoti produttivi sono sempre più frequenti, a causa non solo del ritardo tecnologico e dei tentennamenti decisionali in sede programmatica, ma anche per l’alto costo delle macchine a batterie prodotte dal colosso italo-francese et al. che, paradossalmente, “grazie” ai salari da fame “somministrati” in Italia, non possono essere acquistate nemmeno dagli stessi lavoratori che, a ritmi infernali, le producono, e gli ambigui, insufficienti “premi di risultato” una tantum, a poco servono, perché il danno resta sempre fermamente unito alla beffa!

Prof. Domenico Calderone

3 comments

  1. Dr.Giuseppe Giannini

    E’ sempre interessante leggere quello che scrive il prof. Calderone.
    Qui vengono evidenziati tutti i danni che produce il sistema capitalistico, dalle sue origini – fordismo, taylorismo – fino alle sue evoluzioni – toyotismo, just in time – per arrivare ai giorni nostri dove la tecnologia applicata alla produzione, invece di semplificare il lavoro lo sta distruggendo.
    Questo in termini di milioni di posti di lavoro che vanno persi, di carichi produttivi esorbitanti e di controlli in stile Panopticon.
    Chi ha la responsabilità di governare questi processi, invece di regolarli, preferisce mettersi al servizio dei detentori dei fattori della produzione.
    Per certi versi, siamo ritornati in ambito lavorativo, all’epoca della sudditanza schiavistica della prima rivoluzione industriale.
    Ciò che sconcerta è l’assenza di conflitto sociale, con lavoratori spesso passivi.
    Ed è apparso evidente anche nell’incontro tenutosi a Ruvo quella domenica pomeriggio.La sala era quasi vuota,e degli operai, anche dei comuni interessati, nessuna traccia.Solo una decina di presenze.
    E’ forse la dimostrazione di una complicità con queste politiche negative, le cui ripercussioni però si hanno direttamente sulla vita dei lavoratori e delle loro famiglie.

  2. Prof.ssa Maria Muccia

    Oggigiorno non è tanto quello che si dice, l’importante é “dire” per scardinare qualche coscienza e a reagire. Grazie prof. Domenico, soprattutto perché lo fai con sentito interesse e dedizione. Da anni si è sempre discussa di un famosa questione meridionale, tanto da presentare perfino, puntualmente, una traccia all’esame di stato. Chi non aveva tematiche culturali diverse da esporre, sapeva già dell’esistenza di quella traccia: era scontata! Oggi quella traccia è stata sostituita da: internet e tutto quanto comprende, non perché la questione meridionale fosse stata risolta, ma semplicemente perché c’è un’altra tematica che ha attirato l’attenzione. Che povertà! E le problematiche economiche e sociali? Tutte superate! Lo Stato concede tutto: finanziamenti iniziali,finanziamenti in caso di crisi, rifinanziamenti per ristrutturazioni, ampliamenti, ecc., chi paga? tutta la società lavorativa con i tributi. Ma allora gli utili sono dello Stato e, quindi, di tutti i cittadini? No. Beh! ho insegnato economia aziendale per oltre quarant’anni e se c’era qualcosa che mi irritava era proprio la lezione sui “sistemi economici e l’inquadramento di quello italiano”: lasciavo ai ragazzi la libertà di scelta, non che fossi in disaccordo con gli aiuti economici, questo era l’ultima cosa! Ma il problema era vedere, ancora come oggi succede, degli investimenti a mero scopo di riciclaggio. Si creano delle strutture mastodontiche per pagare progettisti e aziende di costruzioni a costi da capogiro, a carico dello stato,e, magari promettere anche posti di lavoro per accaparrare voti e, poi, scoprire che dentro vi cresce l’erba perché inutilizzate, oppure, case di “comunità di cui oggi ne vogliono costituire ancora tante altre, di cui una a San Fele, come già ce n’é una a Muro Lucano, in cui, dalle finestre, si vedono tante stanze letto con le sedie girate sopra gli stessi perché i piani operativi non sono funzionanti. Perché parlare delle nostre aziende che scompaiono, se stessi gli italiani non si accollano la responsabilità di gestirle oppure, oppure spostano poi gli investimenti all’estero? Per i costi più bassi, facile la risposta. Ma allora perché sfruttare gli altri ? E’ legale? E magari altri italiani vanno anche a protestare per i diritti sociali e civili di quei paesi? Ridicolo! Il meccanismo innescato é molto complicato, confusionario e voluto, soprattutto. L’azienda automobilistica di Melfi e altre sedi italiane si potevano salvare, solo se non avessero permesso alcuna transazione sociale all’estero, e gli italiani se ne sarebbero fatto carico, lasciandola in Italia. Non si può obbligare agli altri di fare, con il loro denaro, ciò che noi non facciamo. E’ ora che i meridionali si sveglino!!!!!! e si imbocchino le maniche.

  3. Danila Marchi

    Grazie Professore che, come sempre, ha saputo cogliere e sviscerare tutti i risvolti della questione e ha saputo visionare il problema da ogni angolatura. Nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa c’è ancora una grande verità italiana e non solo:” Tutto cambia perché nulla cambi”. Una tendenza a mantenere lo status quo, tante parole, pochi fatti, perché le azioni si contrastano, si annullano reciprocamente, pertanto non si determina niente di nuovo sul “fronte meridionale”. Certo è che il mercato delle auto è saturo ed è in crisi da tempo. L’inquinamento è alle stelle come i costi, mentre lo stipendio è alle stalle. Bisogna ridisegnare un futuro o, almeno così è nelle idee da tanto tempo. Tra il dire e il fare però, c’è di mezzo…il mare!

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