Vietri, Sala Convegni gremita per l’apertura dell’Anno Anselmiano: ecco la relazione di don Vito Serritella

Vietri di Potenza e la devozione a Sant’Anselmo
Un documento d’archivio e l’ethos di una comunità

a cura di don Vito Serritella

La missione del Santo è scoprire “il punto di intersezione dell’eternità con il tempo” (T. S. Eliot) – È anzitutto doveroso ringraziare gli organizzatori del convegno per avermi dato la possibilità di partecipare a 1011732_10200697062580330_2044119433_nquesto momento solenne e allo stesso tempo di festa per l’indizione dell’Anno Anselmiano. Vi partecipo nella consapevolezza di avere nel cuore e nella mente l’effigie del Nostro Santo Patrono, che ha accompagnato la mia infanzia e la mia adolescenza qui a Vietri. La storia, poi, è fatta anche di casualità, e il ritrovamento fortuito del documento d’archivio ci ha permesso di ritrovarci tutti insieme in questa ‘Sala Convegni’ che è anche patrimonio della convivenza civile vietrese. La richiesta del Duca Giovanni di Sangro di ottenere nel 1616 le reliquie del Santo rientra nella consuetudine dell’arbitrio delle autorità governative civili che eleggevano al patronato anche santi non canonizzati. Soltanto qualche decennio successivo, nel 1630 papa Urbano VIII impose regole più precise per evitare abusi nella scelta dei santi patroni con il decreto “Super electione sanctorum in patronos”.. Riprendo un passo di Papa Paolo VI sul senso della documentazione d’archivio, scritto per l’udienza agli archivisti ecclesiastici nel 1963: “È il Cristo che opera nel tempo e che scrive, proprio Lui, la sua storia, sì che i nostri brani di carta sono echi e vestigia di questo passaggio del Signore Gesù nel mondo. Ed ecco che, allora, l’avere il culto di queste carte, dei documenti, degli archivi, vuol dire, di riflesso, avere il culto di Cristo, avere il senso della Chiesa, dare a noi stessi, dare a chi verrà la storia del passaggio di questa fase di «transitus Domini» nel mondo”. La storia, magistra vitae, purché non intesa solo nel suo senso storiografico e archeologico, è generata da comunità, da popoli. Ogni comunità ha un suo, almeno inconsapevole, senso di maternità in quanto generatrice dei suoi figli, ma al contempo evoca i ‘Padri’ che – nostri fondatori – hanno scelto Sant’Anselmo come simbolo per la nostra identità.

1. Fede e cultura

Molto spesso la fede viene pensata come qualcosa di astratto o di intellettualmente superiore, riservato a poche persone per la comprensione teologica. L’annuncio del Vangelo non è mai stato esente da un rivestimento culturale. Già all’inizio dell’avvenimento cristiano, i Vangeli e ancor prima le Lettere di Paolo sono stati scritti in un determinato contesto culturale (quello ebraico, palestinese), poi le Chiese del Nuovo Testamento hanno incontrato la filosofia e la cultura greca, successivamente sono state contaminate dal pensiero romano, fino ad incontrare la cultura dei popoli germanici. Pertanto, non si dà fede senza una riformulazione espressiva data in una cultura, con tutto ciò che comporta nella sua ambiguità, ossia nella sua ricchezza o nella sua zavorra storica. Si danno, quindi, una Chiesa, un Vangelo e una cultura. Se è vero che la fede si dà in una cultura, è ancor più vero che la fede ha prodotto cultura, civiltà. Anzi, il dramma di oggi, già segnalato da Paolo VI dopo il Concilio Vaticano II, è che si è prodotta una separazione fra fede e cultura. Cosa si intende per cultura? Dobbiamo in questa sede considerare il concetto diStatua di Sant'Anselmo Martire all'uscita dalla Chiesa Madre cultura non in senso soggettivo come ‘coltura animi’ per indicare l’erudizione, non in senso oggettivo come “Enciclopedia dello scibile” finora scoperto, o hegelianamente come Geist-im-welt (Spirito nel tempo), ma cultura in senso antropologico: i riti, i simboli, i miti di un popolo che ne identificano l’humus, l’ethos, l’identità, il sapere esperienziale o irriflesso.  L’inculturazione, come un inconscio collettivo che tutti respirano, è il processo mediante il quale un messaggio viene integrato alla cultura della sua comunità; la nostra cultura, intesa in questo terzo senso, “ci accompagna per tutta la nostra vita. Noi la possiamo subire passivamente, o possiamo impegnarci attivamente per il suo sviluppo”. L’inculturazione della fede scaturisce da un principio teologico che segue l’accadimento di Gesù di Nazareth, confessato Figlio eterno di Dio: è il principio di incarnazione. Ciò che Cristo ha assunto è stato redento, ossia salvato, purificato elevato alla soprannaturalità del mero dato naturale contaminato dal peccato. Tale principio di fede permette un giudizio sulla realtà storica: di fronte a chi invocava che il mondo non vada solo interpretato, ma va cambiato, il suddetto ‘principio di incarnazione’ chiede di trasfigurare la realtà sul modello che è Cristo stesso, capo delle realtà visibili e invisibili come ci ricorda la Lettera agli Efesini. Con lo stesso principio si deve contestare l’idea di Tradizione come qualcosa di statico, del banale “si è sempre fatto così”, perché la tradizione dei Padri si innesta in un processo genealogico in cui, di generazione in generazione, si deve cogliere la novità nella continuità: “Tradizione non significa l’adorazione delle ceneri, ma la trasmissione del fuoco” (Gustav Mahler). Bisogna riconciliarsi con la Tradizione: abbiamo portato al progresso i nostri omaggi, che prima si solevano tributare alla Tradizione. Abbiamo creduto contraddittori Tradizione e Progresso, pensando che il progresso trovasse la sua fecondità creativa nella negazione della Tradizione, che quello rappresentasse il motore e questa l’ingombrante zavorra; quello il principio attivo, fecondo, sorprendente e dinamico; questa il termine passivo, sterile, monotono e statico. “Guardarsi bisogna dall’utopia che la novità cercata si raggiunga per rivoluzione, piuttosto che per rinnovazione, per un amore cioè che è fedele al passato in ciò ch’ebbe di buono, in ciò che di grande creò e ideò, e che perciò sa aggiungere, modificare, migliorare”. È sotto gli occhi di tutti quanto la fede cristiana si sia inculturata e incarnata nel vissuto di un popolo rurale e abbia così declinato il messaggio dell’Evangelo; altrettanto è urgente “il bisogno di evangelizzare le culture per inculturare il Vangelo”4. Solo a mo’ di esempio, pensiamo all’inno che si canta durante il triduo di preparazione “Salve, O Anselmo/ del ciel il sereno” ecc. In tal modo, la fede si fa esperienza, dal latino experientia, experimentum: “un contatto quasi fisico con ciò che si è sperimentato”. In quanto soggetto collettivo attivo, “ogni popolo è il creatore della propria cultura ed il protagonista della propria storia. La cultura è qualcosa di dinamico, che un popolo ricrea costantemente, ed ogni generazione trasmette alla seguente un complesso di atteggiamenti relativi alle diverse situazioni esistenziali, che questa deve rielaborare di fronte alle proprie sfide”6 e ciò è possibile perché troviamo una riserva morale che custodisce valori di autentico umanesimo cristiano.

2. Pietà e religiosità popolare

Le espressioni della pietà popolare hanno molto da insegnarci e sono un luogo teologico: la pietà popolare è anche ‘mistica popolare’, è un modo legittimo di vivere la fede, un modo di sentirsi parte della Chiesa, purché non ci si fermi alle espressioni ma si raggiunga la ‘res’ dei valori che la animano: giustizia, solidarietà, fraternità, condivisione, coscienza civica. Occorre distinguere, anzitutto, alcuni termini:

– “pii esercizii” sono quelle espressioni pubbliche o private della pietà cristiana che, pur non facendo parte della Liturgia – definita invece per sua natura ‘loghikè latreia’, ‘Opus Divinum’ – , sono in armonia con essa, rispettandone lo spirito, le norme, i ritmi; inoltre dalla Liturgia traggono in qualche modo ispirazione e ad essa devono condurre il popolo cristiano (cfr. DPP, 7);

– “devozioni” sono le diverse pratiche esteriori (ad esempio: testi di preghiera e di canto; osservanza di tempi e visita a luoghi particolari, insegne, medaglie, abiti e consuetudini), che, animate da interiore atteggiamento di fede, manifestano un accento particolare della relazione del fedele con le Divine Persone, o con la beata Vergine nei suoi privilegi di grazia e nei titoli che li esprimono, o con i Santi, considerati nella loro configurazione a Cristo o nel ruolo da loro svolto nella vita della Chiesa (cfr. DPP, 8);

– “pietà popolare” designa le diverse manifestazioni cultuali di carattere privato o comunitario che, nell’ambito della fede cristiana, si esprimono prevalentemente non con i moduli della sacra Liturgia, ma nelle forme peculiari derivanti dal genio di un popolo o di una etnia e della sua cultura (cfr. DPP, 9);

– “religiosità popolare” indica, infine, un’esperienza universale: nel cuore di ogni persona, come nella cultura di ogni popolo e nelle sue manifestazioni collettive, è sempre presente una dimensione religiosa (cfr. DPP, 10).

Molte tesi storiografiche hanno analizzato il fenomeno della pietà e religiosità popolare e si sa che in questi casi un nome al posto di un altro indica una tesi al posto dell’altra.  Tutti conoscono gli studi in Basilicata di Ernesto De Martino pubblicati nel libro Sud e magia del 1959: l’autore cerca di descrivere la struttura delle tecniche magiche e la loro funzione psicologica, in più “vuol indicare i numerosi raccordi, sincretismi e compromessi che legano la bassa magia extracanonica con i modi di devozione popolare e con le stesse forme ufficiali della liturgia”8. Secondo la prospettiva storiografica di stampo marxista di De Martino9, “la magia lucana comunica con i temi fondamentali del culto cattolico, con i sacramentali e i sacramenti, e infine con lo stesso sacrificio della messa, attraverso una continuità di momenti che, sempre potenzialmente, segna un graduale accostarsi al cuore della religione cattolica”.

Ricordiamo, ancor prima, Carlo Levi, nel suo Cristo si è fermato a Eboli del 1945, che descrive nel suo confino ad Aliano e Matera un popolo “serrato nel dolore, in un mondo chiuso, eternamente paziente […] in una terra senza conforto e dolcezza, in un’immobile civiltà, […] in questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale, ma è un dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose, Cristo non è disceso” (excerpta).  Secondo lo studioso Marino Niola, si può parlare a buon titolo del fenomeno del patronato fin dal IV secolo come un tratto caratterizzante della società italiana che riflette identità, culture e tradizioni “di cui la religione appare un fattore di IMG_20150425_205140coesione e di articolazione decisivo” e che rappresenta “una forma devozionale di assoluta centralità antropologica, politica e territoriale”11.  Il Santo Patrono, da un punto di vista antropologico, culturale e sociologico, ma anche giuridico poiché patronus appartiene al lessico dell’avvocatura, è il protettore della comunità e il mediatore tra il mondo divino e il mondo umano: “Il cristianesimo rimodella l’antica struttura della relazione tra patronus e cliens e la trasforma in una sorta di contrattualità devota in base alla quale tra il santo patrono e il devoto si instaura una sorta di patto devozionale, un do ut des tra affidamento e grazia, tra devozione e protezione”12. Per la tesi che voglio sviluppare, non possiamo dimenticare don Giuseppe De Luca, insigne intellettuale nato a Sasso di Castalda (PZ) ma vissuto e ordinato sacerdote a Roma, che ha dato una nuova impostazione agli studi della religiosità popolare con la sua opera più conosciuta: Introduzione alla storia della pietà stampata per i tipi da lui creati delle “Edizioni di Storia e Letteratura”.  Egli così scriveva: “Una intelligenza, ancorché povera, ma onesta, reale, leale, non può non affrontare la pietà […]. Non può non affrontarla la storia, se appena appena […] riesca a essere narrazione più che si possa ultima e totale dell’uomo, e non rimanga a mezza strada racconto o descrizione o interpretazione d’uno o più uomini, di uno o più dei loro tempi […]. Nell’uomo anche il meno pio o prima o dopo suona sempre l’ora e viene il momento della pietà”13. De Luca afferma che, da bravi letterati, abbiamo escluso tutto ciò che non fosse amena letteratura, quasi che l’uomo si esprimesse da uomo soltanto in poesie, teatri e romanzi, invece “non solo la pietà vive nelle arti, ma vi regna: ne è l’ispiratrice più ascoltata e l’imperatrice, ne è effettivamente e veramente l’anima, la vita”14.

La riduzione della pietà a sola teoria della pietà sembrerebbe a tutti assurda e iniqua quanto la sua riduzione a psicologia. Pertanto, non possiamo “vedere queste azioni unicamente come una ricerca naturale della divinità. Sono la manifestazione di una vita teologale animata dall’azione dello Spirito Santo che è stato riversato nei nostri cuori”.

I 400 anni sotto il patrocinio di Sant’Anselmo Martire: il senso del sacro nella modernità e nella postmodernità

La società occidentale è interessata dal processo moderno di secolarizzazione che estende la razionalità procedurale, di distinzione dal sacro, a tutti gli ambiti e settori della vita.  La modernità era caratterizzata da una visione antropocentrica, dalla criticità (nel senso kantiano) soggettiva. La postmodernità è la fine delle grandi narrazioni, è il pensiero debole che dice ‘Addio alla ragione’ (Feyerabend).  La religione scompare dall’ambito pubblico (eccezion fatta per le Chiese istituzionali) per ritrovarsi nell’ambito privato della vita. Non è un caso che la domanda di senso o di sacro non sia, paradossalmente, diminuita né diminuisce (e nemmeno potrebbe), ma “continua a inviare segnali vari dal subconscio umano verso la superficie della società: magia, superstizione, religione popolare, nuovi movimenti religiosi”16.  Al di là delle espressioni strutturalmente ambigue del sacro quando non sono vagliate e confermate da una Rivelazione aletica, anche nei mutamenti della società contemporanea dell’incertezza o della liquidità, l’universo religioso si mantiene intatto: “in Occidente la Chiesa ha effettuato una specie di fusione fra il culturale, il religioso e il cristiano”17.  Il Santo Patrono è – come sostiene il già citato Niola – “una forma particolarmente ravvicinata e rassicurante del sacro che, soprattutto nella religiosità popolare, si esprime essenzialmente nella forma del santo. Tale slittamento da sacro a santo trova nella narrazione agiografica un ulteriore dispositivo di localizzazione che, soprattutto nel caso del patronato, fa della figura del protettore il simbolo principale dell’identità civica”18.  Può sembrare strano, ma non tanto, che in Italia, il Paese dei mille campanili, sia anche quello delle (quasi) mille religioni. Pur essendo saldamente quella cattolica la religione professata della stragrande maggioranza della popolazione, sono, infatti, per la precisione, 836 le denominazioni religiose presenti in Italia, con regolare sede legale secondo quanto emerso dalla ricerca condotta dal Centro studi sulle nuove religioni (Cesnur), la cui ultima edizione19 di riferimento è quella del 2013.

Ciò che è propriamente ‘religioso’ sta su un crinale sottile tra il versante magico-superstizioso e quello gnostico-esoterico e si caratterizza per tre elementi costitutivi: libertà, verità e gratuità.

La nostra idea di religione (per quanto debba sempre evitare il rischio di una visione che implica uno status quo, una deresponsabilizzazione della persona e un determinismo fatalista) è convergente con quanto il Filosofo del linguaggio L. Wittgenstein scrisse nel suo Tractatus logico-philosophicus del 1921 nella tesi 6.52 che riporto: “Riteniamo che, anche se tutte le possibili domande scientifiche vengono risolte, i problemi della vita non sono ancora stati toccati affatto. Certamente, non vi è quindi nessuna domanda rimasta, e proprio questa è la risposta” (traduzione nostra). Senza il mistero, senza il senso del mistero, non si dà esperienza religiosa. Il mistero è qualcosa che interpella, è IMG_20150425_201052l’Appello verso un Tu, un Oltre, un Altro (che non è delimitato dal qui e ora) ossia è la Sinngebung, il ‘conferimento di senso’, che l’uomo attribuisce nei confronti dell’essere. Il linguaggio della religione non può essere appiattito a quello della razionalità tecnico-strumentale, procedurale, ma è quello del simbolico: il simbolo, dal greco syn-ballein (mettere insieme) indica un dinamismo, un movimento dall’esterno (corporeo) all’interno (interiore), una relazione, un incontro: “C’è una realtà che parla a chi è capace di intenderla, a chi sa vedere al di là del sensibile”21, oltre ciò che è sperimentabile in laboratorio, oltre il visibile, oltre l’husserliano “atteggiamento naturale”. Una realtà, quindi, quella religiosa, che non contrappone il mythos al logos: il linguaggio mitico cerca le costanti della grammatica umana, è vero non perché ‘storico’ ma perché ‘reale’, perché, come ‘universale concreto’, parla di ogni uomo a partire dalla sua unicità e da questa scopre ciò che più di universale accomuna tutta l’umanità. Il logos, a sua volta, permette la razionalità delle visioni del mondo declinate nelle sue prospettive più varie e sfumate, giacché molteplice è la ricchezza dell’essere. Il simbolo rivela una struttura della realtà che tende a ridurre l’angoscia, lo spaesamento, il non sentirsi a casa (unheimlich); esso indica l’aver una mappa per categorizzare il mondo, apporta una significazione all’esistenza umana, la sua evocazione suggerisce, dà da pensare22, non resta inerte, spinge in una direzione. Nel senso simbolico-religioso (che non si riduce al ‘sentimento religioso’ descritto e definito da Schleiermacher) si ha una mediazione fra il senso umano e il senso cristiano dell’esistenza per comprendere la direzione, l’orientamento della propria avventura esistenziale, il bisogno di comunità (di sicurezza e di cura) nella rassicurazione di un destino comune e, infine, la ricerca della libertà e della giustizia, cardini assiologici del cristianesimo secondo il Sermone delle Beatitudini. In quest’ottica, il senso religioso è necessario ma non sufficiente: il sociologo M. Gauchet, con una frase ad effetto, afferma che il cristianesimo è “la religion de la sortie de la religion”. La Prima Lettera di Pietro, se fosse necessaria una conferma di quanto detto or ora, rivela: “Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori” (1 Pt 3,15); ecco perché con l’Incarnazione, la religione e i riti, i gesti e i testi sacri, riguardano la vita concreta, il vissuto esistenziale.

Siamo partiti riconoscendo sia il senso della cura che la comunità, espressa dal popolo e dalla sua cultura, ha verso i propri figli, sia il ‘nomos’, la legge dei Padri, che dà prospettive di libertà e di evoluzione, di crescita; abbiamo visto, poi, che la Tradizione è tenere acceso ‘il fuoco’, togliendo la cenere che la storia deposita come incrostazione. Nel bellissimo romanzo di Cormac McCarthy, La strada, un uomo, anzi un padre, e un bambino viaggiano attraverso un mondo ridotto in cenere, un mondo post-apocalittico. Essi trascinano con sé, in un groviglio di strade senza origine e dentro una natura ridotta a involucro, tutto ciò che – nel nuovo equilibrio delle cose – ha ancora valore: un carrello del supermercato col cibo che riescono a rimediare, un telo di plastica per ripararsi dalla pioggia e una pistola per difendersi dalle bande dei predoni per sopravvivere.

Vi leggo le ultime battute24:

Quella notte il bambino dormì vicino al padre e lo tenne abbracciato, ma quando al mattino si svegliò il padre era freddo e rigido. […]

Arrivava qualcuno. […] (questi disse:, ndr)

Era tuo padre?

Sì. Era il mio papà. […]

Penso che dovresti venire con me.

Tu sei uno dei buoni? […]

Come faccio a sapere se sei uno dei buoni (chiese il bambino, ndr)?

Non puoi. Devi fidarti.

Tu porti il fuoco?

Io porto che?

Il fuoco.[…]

Cosa? Se porto il fuoco?

Eh.

Sì. Portiamo il fuoco (corsivo nostro, ndr).

Dopo quattro secoli, anche noi dobbiamo portare il fuoco che ci è stato consegnato: “Il cristianesimo è per noi un fatto divino ed è un fatto nella storia”25.

E solo quelli capaci di ascoltare chi è venuto prima di loro sono i veri custodi delle generazioni future: “la società non è un contratto tra i viventi e basta, è un accordo tra chi vive, chi è stato e chi ci sarà”26.

Da un archivio cartaceo, dobbiamo custodire, ora, nell’archivio del cuore e della memoria i frutti delle generazioni che ci hanno preceduto senza fare apoteosi, ma guardando umilmente ai ‘segni dei tempi’ che cambiano e che ci chiedono nuove energie per trarre, da uno stesso tesoro, di storia, di cultura, di fede e pietà popolare, “cose antiche e cose nuove” (Mt 13,52).

Grazie per l’attenzione e auguri a tutti per l’anno che ci accingiamo a vivere e celebrare

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