Il “Dizionario minimo del dialetto lauritano” del prof. Giovanni Carro: un’ulteriore tessera per il mosaico dei dialetti meridionali ed oltre. Somiglianze notevoli tra il lauritano ed il ruvese

Per decenni, abbiamo assistito ad un’ignobile demonizzazione ed ostracizzazione dei dialetti locali, ritenuti, a torto, deleteri per la lingua ufficiale e, in qualche caso, addirittura fomentatori di istanze separatiste, in certe zone della nostra penisola. Ora, per fortuna, questa cattiva moda “iconoclasta” applicata all’etno-sociolinguistica è desueta. Da qualche lustro, infatti, si registrano sempre più manifestazioni d’interesse verso i linguaggi vernacolari, resuscitati a nuova vita culturale, indispensabili per la conservazione delle tradizioni, usi e costumi di un popolo, anche a salvaguardia delle minoranze etniche diffuse sul territorio italiano. Poi, ha ragione il grande scrittore Erri De Luca quando nel suo libro “Il giorno della felicità” dice che: “ L’italiano va bene per scrivere, dove non serve la voce, ma per raccontare un fatto ci vuole la lingua nostra, che incolla bene la storia e ci fa vedere (…)”

A sottolineare l’importanza di questi particolari codici linguistici, ogni anno le Pro Loco italiane inseriscono per il 17 gennaio, nelle loro manifestazioni, spazi dedicati ad hoc al proprio dialetto, come quello di Laurito, paese inserito nel “Parco nazionale del Cilento”, in provincia di Salerno, da cui ci è pervenuto questo pregiato “Dizionario minimo del dialetto lauritano”, a cura del prof. Giovanni Carro, ex docente di Matematica e Fisica presso il Liceo scientifico di Lagonegro ed ex Preside di vari Istituti superiori, tra cui il Liceo classico di Senise.

Questo volume, ben rilegato, corredato da numerose tavole illustrate, segue la 1^ edizione e si arricchisce di “nuovi” vocaboli e detti popolari scovati in situ, grazie ad un’attenta ricerca dell’autore, tesa a dare nuovo vigore alla lingua familiare, per ricostruire il passato della comunità, attraverso stilemi e rituali diretti, non mediati dalla “lingua volgare”.

Il codice dialettale, apparentemente inutile nella società iperinformatizzata odierna, trova invece applicazione in variegati contesti sociolinguistici, per sfuggire al lessico familiare anglicizzato e destrutturato da Internet e suoi derivati. Questo codice linguistico tanto bistrattato ai tempi del brigantaggio post-unitario, perché visto con sospetto dal potere costituito, in realtà andrebbe rivisto come L2 genuina, capace con il suo “imprinting” verista di esternare sensazioni, sentimenti, passioni, con un afflato difficilmente raggiungibile tramite la lingua nazionale, naturalmente più omologante.

Questo “Dizionario minimo”inoltre contiene vecchi detti popolari, che forse sarebbe stato meglio non tradurre in italiano, per spingere il lettore alla ricerca e all’analisi del testo, cosa poco praticata dagli studenti di oggi. Interessante è anche la pagina statistica, che ci ricorda che “al 2015 si stimava che il 45,9% della popolazione italiana di 6 anni di età si esprimeva prevalentemente in italiano in famiglia e il 32,2% sia in italiano che in dialetto. Solo il 14% usava in prevalenza il dialetto, che rimane una consuetudine tra gli anziani over 75. L’uso prevalente del dialetto in famiglia e con gli amici riguarda maggiormente chi ha un basso titolo di studio, anche a parità di età (…)” Ma la ragione di questa scelta di occuparci di questa guida, risiede nell’aver constatato moltissime analogie tra dialetto campano e lucano, specie se consideriamo la zona occidentale della Basilicata, confinante con la Campania, dove il lessico si fa fluido, grazie ad un inevitabile sincretismo linguistico e un inventario lessicale e fonematico molto simili tra le relative comunità parlanti. A titolo esemplificativo, prendiamo qualche termine o modo di dire per ogni lettera dell’alfabeto (pagg. 13-145): << A peri: a piedi; addiriniu: tacchino; Biasi: Biagio; buatta: barattolo; cacagliusu: balbuziente; caglientà: riscaldare; ddirrupà: precipitare; durici: dodici; embè: allora, dunque; eriva: erba; faccifrunti: dirimpetto; fasulu: fagiolo; fumieri: letame; grattapunu: locale con pareti cadenti (nota mia: nel dialetto lucano aviglianese/ruvese, lo stesso significante, ma terminante in “e” designa, invece, un fosso/precipizio) ; gregna: più fasci di spighe(iermiti); intrichera: donna impicciona; isci: ordine all’asino di fermarsi; laanaturu: matterello; lientu: persona gracile, magra; maniata: gruppo di cattive persone, palpeggiamento libidinoso; mpapucchià: confondere, ingarbugliare; ntrocchia: donna furba, maliziosa; ntustà: indurire; passefò: ordine al cane per farlo uscire; passellà: ordine al cane per farlo spostare; piscrai: dopodomani; quanna: quando; quinnici: quindici; riterza: l’altro ieri; rocchia: gruppo di persone; sanapurcieddi: castratore di maiali; scannieddu: sgabello; scazzarieddu: particolare vento che genera mulinelli; taccaredda: scheggia di legno; tata: padre; tripponzio: persona con ventre prominente; uortu: orto; urredda: cumulo di undici gregne; vantisinu: grembiule usato in cucina; vasilicoia: basilico; zaaglia: fettuccia; zippulata: allusione malevola verso qualcuno.>>    

Interessanti per i lauritani, sono anche un’appendice di storia locale e la suddivisione geografica in tre zone del paese, con relativa denominazione toponomastica (pagg. 268- 271) e lo “Storico elezioni comunali di Laurito dal 1946 al 2017”, di cui Carro è stato Sindaco (pagg. 230-265). Di carattere più generale è la curiosa coniugazione di qualche verbo in alcuni tempi del modo indicativo: “Iu scingu; Iu avietti; Iu trasu; Iu scinnietti; Iu trasietti (…)”

A parte alcuni refusi connaturati alla scrittura elettronica, sparsi qua e là, il dizionario, nonostante non si sia avvalso di simboli speciali in ambito IPA, per una maggiore precisione fonemica/fonetica, a beneficio dei “forestieri”, rappresenta comunque una fonte preziosissima di informazioni, corredato di bellissime foto paesaggistiche del Cilento, su carta patinata, che esaltano la pregevolezza dell’opera, la cui stesura ha comportato una complessa bibliografia, dove emergono studiosi di spicco, di nostra conoscenza didattica, come G. Berruto e G. Rohlfs (fonte imprescindibile per tutti gli studiosi di dialettologia). Grazie al prof. Carro per questo contributo alla conoscenza. Ad maiora!

Prof. Domenico Calderone
Ruvo del Monte

3 comments

  1. Giuseppe Giannini

    Interessante (come sempre) questa recensione del prof. Calderone, dove vengono evidenziate le affinità-divergenze (per citare il titolo di un famoso disco) tra i dialetti.D’altronde le similitudini linguistiche tra territori distanti derivano anche dal fatto che sia il Cilento, che gran parte dell’attuale Basilicata, ad eccezione del Vulture-Melfese facevano parte della Lucania.La riscoperta dell’importanza del dialetto, deve essere intesa come arricchimento culturale, aspetto di tutto un patrimonio di tradizioni da ereditare.L’importante è il non arroccarsi verso posizioni identitarie.Come sottolineato, a causa della pervasività della tecnologia, neologismi ed acronimi stanno impoverendo la lingua italiana, ed anche i dialetti ne risentono.Cinquanta anni fa il grande Pier Paolo Pasolini ci ammoniva sulla scomparsa delle differenze, sull’omologazione della società dei consumi, parlando di un nuovo fascismo, che eliminando le particolarità, le caratteristiche tipiche dei posti, ci avrebbe condotti a quell’uniformismo passivo della attuale società liquida.

  2. GIOVANNI CARRO

    Condivido pienamente le riflessioni del dott. Giannini.
    Aggiungo,a conferma, che Laurito ,in illo tempore,non faceva parte del Cilento attuale ma,apparteneva al territorio Lucano.
    Ancora oggi, resiste il nome della stazione ferroviaria Vallo della Lucania,situata nel Cilento attuale,in provincia di Salerno , che crea molte confusione in coloro i quali arrivano per la prima volta a sud di Salerno.
    Al prof. Calderone , che ringrazio nuovamente per l’accurata, analitica e approfondita recensione che ha voluto dedicare al mio “Dizionario mimimo del dialetto lauritano” e al dott. Giannini che, in coda al suo commento fa riferimento “all’unimorfismo dell’attuale società liquida” chiedo una breve riflessione sull’importanza che i micro-dialetti possono avere per i nostri giovani ribattezzati dalla letteratura corrente “nativi digitali”.

  3. Giuseppe Giannini

    Il dialetto è la prima lingua che si impara, soprattutto nei paesi piccoli.Alcuni termini arcaici, trasmessi dalle persone anziane, già non esistono più.Il dialetto ha quindi subito una revisione, scalfito dall’inesorabile scorrere del tempo.Poi si va a scuola e si impara l’italiano (si spera).Il problema è che, ad una scuola sempre più organizzata come un’azienda,preme la conoscenza dell’inglese e dell’informatica, e delle materie tecniche, importanti si, ma che dovrebbero venir dopo l’assimilazione delle materie di base: dall’italiano, alla storia, alla geografia.Solo il sapere umanistico è in grado di fornire quegli strumenti critici in grado di proiettare gli studenti nella società.L’etimologia delle parole, la ricerca delle comuni origini, ad es. delle lingue neolatine,l’influenza delle migrazioni secolari, sono tutti elementi caratterizzanti, in qualche modo, l’evoluzione dei popoli, con le loro tradizioni, i loro costumi, la lingua e i dialetti.I cd. nativi digitali, immersi nell’iperrealtà di questi tempi post-postmoderni, che sacrificano la conoscenza, cosi come gli scambi non mercificati e le relazioni umane, sono le vittime sacrificali, di un cambio di paradigma, che mette tutto a valore, allontanando l’umano da se stesso, in una sorta di ibridazione uomo-macchina, i cui nefasti effetti sono più che tangibili.

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