Melfi, imbrattò bagni con feci. Per la Cassazione “va riassunto operaio Sata”

sata-melfiMELFI – L’aver scritto «A morte i capi» con feci in una toilette dello stabilimento Sata di Melfi (dove già in passato si erano verificati episodi simili) non basta per licenziare il lavoratore. In tal senso ha concluso la Cassazione respingendo il ricorso della società del marchio Fiat contro la sentenza di Appello che, ribaltando il giudizio di primo grado, aveva dichiarato illegittimo perché sproporzionato il licenziamento. I fatti risalgono a metà del 2004 quando venne accertato il fatto riconosciuto come provato dalle varie sentenze. Così l’8 luglio di quell’anno l’azienda intimò il licenziamento, il lavoratore fece ricorso ma il giudice di primo grado al tribunale e il giudice di Melfi, il 17 gennaio, rigettò il ricorso. Nuovo ricorso in Appello e questa volta la Corte di Potenza, a novembre del 2013, in riforma della sentenza di primo grado, dichiara «illegittimo perché sproporzionato» il licenziamento ordinandone la reintegra sul posto di lavoro con il pagamento di tutte quante le retribuzioni non percepite come da legge. I legali Sata sono ricorsi in Cassazione ma ora i giudici della suprema corte hanno respinto il ricorso rendendo definitiva la sentenza di reintegra.  L’azienda contestava la decisione dei giudici di appello che gli atti commessi non fossero sufficienti al licenziamento, l’illogicità del fatto che fosse stata considerata la qualifica lavorativa ai fini della valutazione della gravità del fatto e il fatto che la sentenza avesse escluso la rilevanza penale dei fatti. Motivi «inammissibili» hanno detto i giudici di Cassazione, «atteso che, ad onta del richiamo a norme di diritto che si legge nel primo mezzo, in realtà sollecitano soltanto un generale nuovo apprezzamento in punto di fatto della vicenda» a seguito di «un apprezzamento di merito che proprio perché tale questa suprema corte non può correggere in alcun modo». Sata aveva anche contestato che fosse stata valutato lo stato di salute del lavoratore, una sindrome depressiva (cosa non espressamente chiesta dal suo difensore) per valutare la proporzionalità tra fatto e sanzione, prospettando una sorta di incapacità, e l’aver ignorato che in precedenza si erano verificati fatti analoghi «ancorché non se ne sia raggiunta la prova di ascrivibilità» allo stesso lavoratore. Ma anche questi motivi sono stati ritenuti inammissibili nel primo caso sostenendo che il ricorso travisava la sentenza, che non aveva concluso per l’incapacità, e nel secondo per l’impossibilità di valutare i fatti contestati «alla luce di precedenti analoghi illeciti disciplinari che si ammettono come non provati a suo carico».

Fonte: LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO – Edizione Basilicata

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