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“Anche per l’ergastolano c’è una speranza”. Le varianti alternative alla massima pena detentiva, illustrate da un avvocato criminologo

Dopo i successi editoriali dei best-sellers “Il diritto è bello …” e “365 frasi d’amore” (recensiti su “melandro news”, con record di visualizzazioni, rispettivamente, di 135610 e 52842 unità al momento), il prof. avv. Donato Santoro, avvocato del Foro di Roma, è appena tornato in libreria con tre nuovi volumi, tutti editi dalla Youcanprint. Il primo s’intitola “Il diritto alla salute per il recluso in rispetto dell’art. 32 della Costituzione” ed è un testo abbastanza ponderoso, di ben 510 pagine, che, come recita il titolo, si occupa della salute dei detenuti in carcere (euro 35,00). Il secondo testo s’intitola “La pericolosità sociale durante l’esecuzione della pena” (euro 13,00) che, nelle sue 130 pagine, tratta una serie di casi di errori giudiziari, prima di affrontare alcune fattispecie di “pericolosità sociale”. Il terzo testo, vero piatto forte della triade, è quello destinato a suscitare curiosità e polemiche; esso ha un titolo ad effetto: “Anche per l’ergastolano c’è una speranza” (euro 27,00). Quest’ultimo libro, di 343 pagine distribuite in quattro lunghi capitoli, parte dalla biografia in cui esalta le due figure genitoriali, prima di ringraziare alcune persone decisive per la sua formazione giuridica, tra cui il prof. avv. Ivan Russo, insigne giurista del Foro di Potenza. Segue l’altisonante prefazione firmata dal prof. avv. Pierpaolo Rivello, Procuratore generale emerito c/o la Suprema Corte di Cassazione, che afferma: “Con questo nuovo volume, l’autore, l’avv. prof. Donato Santoro, prosegue lungo un percorso ideale che lo ha condotto ad una produzione davvero imponente di testi giuridici, nei quali l’approfondimento tecnico si coniuga sempre con la profonda sensibilità nei confronti delle problematiche umane sottostanti (…)”, pagg. 19-21. L’intera opera si dipana intorno al dilemma se abolire o mantenere l’istituto dell’ergastolo vigente. Le correnti di pensiero in seno alla Magistratura e all’Avvocatura, a tale proposito sono ovviamente molteplici, differenziate e discordanti, in alcuni casi antinomiche. Infatti, c’è chi sostiene che l’ergastolo non produca una maggiore deterrenza e conseguente diminuzione del tasso di criminalità, rispetto alle pene temporanee di lunga durata, e chi ritiene, invece, che l’ergastolo giustifichi la sua vigenza in virtù della sua “funzione general-preventiva”, ovvero punirne uno per educarne cento.  In ogni caso, tutte le tesi ruotano intorno all’art. 27, comma 3 della Costituzione, che recita testualmente: “(…) Le pene non possono consistere in trattamenti contrari all’umanità (…)” e al dettato dell’art. 1 dell’Ord. Pen.: “Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona” (pag. 168). Tutto il testo, influenzato dalla carriera primigenia del prof. Santoro (egli è stato, in primis, comandante delle guardie carcerarie e fondatore del sindacato di categoria “SAPPE”) si ispira ad una tendenza positivista e ripone una grande fiducia nella possibilità di reinserimento, senza rischi sociali, del condannato a “fine pena mai” o, più eufemisticamente, a “liberazione nel 9999”, nel consorzio umano e civile. L’autore crede molto nell’efficacia delle forme di pena extramurarie, da sempre convinto che le politiche severe siano meno efficaci di quelle premiali: in lui, infatti, emerge a chiare lettere l’esigenza di umanizzare la pena, evitando che l’ergastolo sia “morte viva”. I quattro capitoli del libro sono ricchi di centinaia di citazioni di valenti giuristi, come “pezze d’appoggio” a questa tesi, anche se non mancano quelle di orientamento opposto. Il lessico tecnico-giuridico, spesso ermetico, è ben tradotto attraverso una “explanatio per argumenta exemplorum”, ad adiuvandum, che aiuta il lettore a districarsi nei meandri linguistici e filologici del linguaggio giuridico, arricchendolo sia dal punto di vista culturale che umano. Interessante è l’intervista ad alcuni ergastolani condannati al cosiddetto “ergastolo ostativo”, cioè quello che, a causa della mancata collaborazione del reo, ai sensi dell’art. 58 ter. Ord. Penit., ne impedisce la scarcerazione con il beneficio della condizionale, anche se la mancata collaborazione non significa automaticamente che il soggetto detenuto non abbia rescisso ogni legame con l’associazione mafiosa o terroristica (pagg. 259- 267). Secondo uno di questi ergastolani non collaboranti, sottoposto al regime restrittivo dell’art. 4 bis dell’Ord. Penit: “L’ergastolo è una pena di morte al rallentatore che ti ammazza lasciandoti vivo”.  Anche se in realtà l’ergastolo, la massima pena vigente, nata in sostituzione della pena di morte, abolita con la promulgazione della Costituzione, viene comminata solo nei casi di manifestazioni criminose più gravi “che evocano la rottura di un patto sociale primordiale”, molti sono coloro i quali non credono in una sua maggiore efficacia dissuasiva, rispetto ad una pena temporanea di 24, 26, 28 oppure 32 anni, sino alla liberazione condizionale. Insomma, varie sono le correnti di pensiero illustrate in questo pregevole testo arricchito con l’uso del latinetto, in cui l’autore, per propria forma mentis, tenta di contrastare le “esigenze satisfattorie” di chi cerca di assecondare il pubblico sentimento incline alla vendetta. Nel paragrafo 1.1: “La nascita dell’ergastolo e il diritto comune”, leggiamo che: ““Ergastolo” deriva dal greco “lavorare”, tradotto in latino come “ergastulum”, ossia il luogo del lavoro forzato dove il proprietario teneva in catene, per punizione, quegli schiavi ritenuti infedeli, incorreggibili, facinorosi”. Certo, il termine, nel corso del tempo, ha subito uno slittamento semantico dovuto all’evoluzione del pensiero e ai cambiamenti storici e sociali del costume. L’ergastolo, in quanto pena intramuraria afflittiva ha anche risentito dei ripetuti richiami della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), materia in cui il prof. Santoro è specializzato, che, tra le sue direttive (pagg. 373- 386), all’art. 3 sottolinea l’esigenza che “tutte le pene, compreso l’ergastolo, non comportino trattamenti inumani o degradanti per il soggetto condannato” (pag. 168). Il convitato di pietra, a questo punto, osserva: sì, è giusto evitare gli effetti desocializzanti della pena a danno del condannato alla “clessidra senza sabbia”; ma nessuno pensa alle vittime di femminicidio, di infanticidio o di altri crimini efferati, sempre più frequenti nella nostra società “turbata” mai risarciti beccarianamente, con il giusto, proporzionale castigo?

Prof. Domenico Calderone

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